Paolo Kovatsch è responsabile tecnico dell’Agenzia provinciale delle foreste demaniali della Provincia autonoma di Trento (PAT), e dirige le azioni di recupero e ripristino delle aree boscate di proprietà provinciale colpite nel 2018 da VAIA. Abbiamo fatto due chiacchiere con lui per fare il punto della situazione sul territorio, a due anni dall’evento.
Trentino 1966-2018: quali similitudini?
Nel 1966 il Trentino fu colpito da un’alluvione e da fenomeni atmosferici paragonabili a quelli di VAIA 2018. In un bel video girato a Cadino, nei pressi del passo Manghen, Lei evidenzia una sorprendente sovrapposizione tra gli schianti del 1966 e quelli del 2018.
Il fatto ci dice qualcosa riguardo la pianificazione forestale? Tale sovrapposizione è dovuta alla specifica conformazione del territorio, oppure a una gestione del patrimonio boschivo che non ha saputo imparare dai disastri passati?
Non abbiamo certezze al riguardo. I dati oggettivi suggeriscono che la zona di Cadino ha un’esposizione e una conformazione morfologica che in casi eccezionali favorisce il tipo eccezionale di schiantate che abbiamo osservato, nel 2018 come nel 1966. L’effetto fisico da parte del vento è stato il medesimo: una forte ventata di scirocco, proveniente dal Passo Manghen, da sud-est.
Riguardo alla seconda ipotesi, ovvero che la struttura e la gestione del bosco possa aver influito adesso come allora sulla risposta all’evento fisico, bisogna osservare che i due eventi si sono sviluppati in situazioni diametralmente opposte. Nel 1966, grazie alla preziosa testimonianza del piano decennale di assestamento, collaudato pochi mesi prima, sappiamo che il bosco era maturo e articolato, con una buona varietà nella distribuzione dei diametri dei fusti. Nel 2018, quasi necessariamente, dati gli appena cinquant’anni passati dall’ultimo schianto, il bosco era più omogeneo e più giovane. Questo potrebbe dimostrare, in un certo modo, che avere due boschi diversi non conta molto, quando si tratta di fronteggiare 200 km/h di vento, come in occasione di VAIA.
Un approccio naturalistico
Oggi, gli interventi di ripristino del territorio boschivo sono improntati alla selvicoltura naturalistica, e ciò dovrebbe essere il viatico migliore per la resilienza del bosco. La gestione boschiva degli anni Cinquanta-Sessanta, basata sulla piantumazione a tappeto di abete rosso, può essere un’eredità che ha inciso negativamente sulla resistenza delle piante in occasione della tempesta VAIA?
Le strategie di impianto degli anni Cinquanta e Sessanta dipendevano per la maggior parte da variabili commerciali: il valore del legname era di gran lunga maggiore rispetto ad oggi, e l’abete rosso era la specie forestale più redditizia.
A parte un discorso di carattere meramente economico, tuttavia, va considerato il fatto che nell’area di Cadino l’altitudine di 1500-1600 metri limita fortemente la varietà di specie arboree. Le aree più colpite erano coperte per la maggior parte da abete rosso, caratterizzato da un apparato radicale superficiale. Piante come abete bianco e larice si sono invece spezzate a una certa altezza, ma poco cambia. La forza straordinaria del vento non ha lasciato grandi margini alla composizione del bosco.
Il problema maggiore risiede nelle distese di abeti rossi ad altitudini minori, come a 400-500 metri. In quel caso, piantare una specie fuori dal suo habitat naturale la espone maggiormente all’attacco di malattie e funghi, riducendo effettivamente la salubrità del bosco.
La forza del larice
Il larice possiede un apparato radicale particolarmente profondo. Aumentarne la percentuale di esemplari, date le sue caratteristiche, può contribuire a rafforzare il bosco?
Oggi le attività di ripiantumazione sono molto più orientate a una gestione forestale a beneficio della rinnovazione naturale. Di conseguenza, non si interverrà su tutte le aree schiantate, anche per i costi che ciò comporterebbe, data la scala del danno. Gli interventi si concentreranno in quelle aree che maggiormente necessitano della protezione attiva del bosco, ovvero della sua funzione di stabilizzazione del suolo.
La composizione della ripiantumazione terrà conto di questo approccio, e il larice è certamente una pianta preziosa – una specie pioniera in grado di colonizzare in fretta spazi aperti per la sua fame di luce. Il larice sarà affiancato all’abete rosso e alle altre specie del caso, a seconda dell’area di intervento, ma non potrà comunque essere impiegato in tutte le situazioni, in quanto si sviluppa preferibilmente a certe quote ed in certe condizioni microclimatiche.
Salvare il salvabile
Come ci ha raccontato recentemente, il recupero dei tronchi abbattuti rimane la vostra priorità, e al momento si attesta sul 70% del totale. A cosa è dovuta tale attenzione, a questioni ambientali, logistiche, o economiche?
La necessità di recupero del materiale è finalizzata principalmente a limitare la perdita del legname schiantato: se in certe zone il danno è stato del 5-6% rispetto al patrimonio complessivo, in altre realtà trentine (e non solo) si sono raggiunti picchi del 90%. Un recupero veloce e quanto più completo è dovuto alla necessità di “fare cassa”, per non sprecare un legname che ancora possiede un buon valore residuale.
Va tenuto presente che quelle che a noi appaiono come catastrofi naturali fanno spesso parte di cicli indispensabili alla rinnovazione naturale; date però le nostre necessità umane, è comprensibile cercare di velocizzare al massimo i tempi di ripresa dell’habitat.
La schiantata abbondante costituisce un accumulo di legname che diviene necromassa, e che richiede decenni per essere smaltita autonomamente dall’ecosistema. In uno studio condotto sugli effetti dell’uragano Viviane, abbattutosi in Svizzera nel 1990, si è provveduto a diversificare le modalità di ripristino del territorio (recupero totale del legname, parziale, nullo) e a monitorarne l’evoluzione. Sulla proprietà demaniale si procederà analogamente, in collaborazione con l’Università di Torino, tenendo sotto osservazione lo sviluppo vegetativo in situazioni diverse. Lasciare tutto il materiale a terra porta in particolare al rischio di infestazioni, ad esempio del bostrico, che ha avuto una forte espansione durante il 2020 complice il favorevole andamento climatico.
Per quanto riguarda la logistica, è già stato fatto un grosso lavoro per aprire nuovi percorsi di accesso forestale, mentre la rete sentieristica è stata ripristinata per la maggior parte, già in corrispondenza dell’ultima stagione turistica estiva.
Il dopo-VAIA: la tenuta del soprassuolo
Per il dopo-Vaia, tra le misure più urgenti vi è quella di stabilizzare il soprassuolo. Alla luce dei frequenti smottamenti che accadono sulla nostra penisola, e che continueranno ad aumentare in frequenza ed intensità secondo l’ultimo rapporto CMCC, quali sono le aree ad aver maggior bisogno di ripristino? Quale strategia state seguendo come Provincia Autonoma di Trento (PAT)?
L’Agenzia provinciale delle foreste demaniali, in collaborazione con il Dipartimento della Protezione civile, il Servizio foreste e il Servizio bacini montani, ha definito una cartografia di intervento prioritario incrociando i dati sui versanti scoperti che incidono sulle zone più vulnerabili. Abbiamo posto particolare attenzione ai versanti in prossimità di nuclei abitati o strade, ai bacini in cui VAIA ha distrutto il soprassuolo quasi completamente, esponendo le superfici più ripide a rischio frana, e alle zone valanghive.
Quanto tempo dobbiamo aspettare per ottenere una tenuta idrogeologica comparabile a quella pre-Vaia?
La differenza chiaramente dipenderà dalle aree di intervento. Zone con caratteristiche climatiche continentali come Paneveggio, caratterizzate da un clima più rigido, richiedono molto più tempo per un ripristino completo – basti pensare che in un arco temporale di 50 anni le piante possono arrivare a crescere appena 2 metri, contro gli 8-10 metri per climi più miti. Fortunatamente tali aree costituiscono una parte proporzionalmente contenuta rispetto il totale delle zone danneggiate e sono situate perlopiù in aree di minor rischio per l’uomo. I siti a maggiore priorità quanto a rischio idrogeologico, o quelli situati in zone più favorevoli al ripristino, seguiranno un’altra evoluzione.
Complessivamente, le aree colpite saranno ancora visibili almeno per i prossimi trent’anni. Per quanto riguarda la tenuta effettiva, dobbiamo ricordare che il terreno nudo comincia immediatamente a coprirsi di erba e arbusti vari. Il recupero sarà pertanto più rapido, stimabile in 5-10 anni su tutto il territorio – fatta eccezione per le aree a rischio menzionate precedentemente, in cui il ripristino sarà velocizzato dagli interventi pianificati di impianto artificiale.
Una collaborazione vincente
Come valuta l’apporto di attori privati come VAIA agli interventi di ripristino di un territorio che, per la maggior parte, è di proprietà del Demanio? Alcuni sostengono che l’azione spetti esclusivamente al settore pubblico.
La vostra iniziativa, così come tante altre, va a intercettare una sensibilità che è condivisa della gente comune. L’esempio di Trentino Tree Agreement è rilevante in questo senso, essendo un’iniziativa di carattere pubblico che raccoglie fondi privati. Una visione che bisogna cercare di conservare. VAIA ha il merito ulteriore di puntare sulla valorizzazione del legname, sul suo riutilizzo.
È significativo che dopo due anni continuiamo a parlare della tempesta VAIA – con il bombardamento di informazioni che continuiamo a subire francamente non me l’aspettavo, anche perché il vero lavoro comincia adesso. Tenere il pubblico sensibilizzato sul tema è un aspetto molto importante.
Per quanto riguarda il lato più concreto, in termini di supporto finanziario offerto dal settore privato, non va dimenticato che le risorse messe a disposizione permettono di ricostruire un territorio stabile e vivibile, a vantaggio di tutti. Ciò è di particolare rilevanza alla luce delle scarse risorse di cui dispone l’amministrazione pubblica, complice la riduzione del valore del legno. Il settore nord-orientale delle Alpi è un esempio dell’importanza della manutenzione continua del territorio.
In poche parole, non importa che l’intervento sia pubblico o privato. Ciò che conta è che il risultato vada a vantaggio di tutti noi.
Un’opportunità per sequestrare nuovo carbonio
In che modo il Servizio Foreste della PAT sta cercando di aumentare il potenziale boschivo come deposito di carbonio?
La tecnica selvicolturale negli ultimi decenni, rafforzatasi dagli anni Ottanta in poi sotto il segno della selvicoltura naturalistica, è quella di gestire il bosco nel suo complesso, limitando al minimo gli interventi artificiali. La Magnifica Comunità di Fiemme è certificata sia con il protocollo PEFC che FSC, mentre le foreste demaniali provinciali e circa l’80% delle proprietà comunali della PAT sono certificate PEFC, a testimonianza della gestione ecosostenibile del territorio. In estrema sintesi, l’obiettivo è l’accrescimento della biodiversità ed articolazione del bosco per aumentarne la resilienza, favorendo e innescando processi di rinnovazione naturale dei soprassuoli.
Il ringiovanimento di certe porzioni boscate è indubbiamente una tecnica per aumentare la loro funzione di deposito di carbonio, ma questo richiede di seguire ritmi decennali. Il ripopolamento dei boschi dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ad esempio, ha consentito di raggiungere i livelli attuali diminuendo il prelievo di legname per diversi decenni – situazione che oggi ci permette di effettuare tagli per un buon 70% dell’incremento complessivo annuale, mantenendo la sostenibilità a lungo termine del patrimonio boschivo.
Avere boschi giovani è quindi più efficace da un punto di vista del sequestro della CO2, ma non è l’unico obiettivo che la gestione può porsi. D’altro canto, solo attraverso una corretta gestione dei boschi è possibile arrivare a un consistente incameramento della CO2. Progetti edilizi come Wood Way, portato avanti da Ri-Legno a Rovereto, utilizzando proprio il legno abbattuto da VAIA, è un ottimo esempio di come l’anidride carbonica sequestrata può rientrare in un ciclo prezioso di abbattimento delle emissioni.