Antonio Pavolini è uno di quei cervelli curiosi, brillanti e agili che nel corso di una conversazione possono parlare – in maniera profonda e puntuale – prima di crisi dei giornali, poi di Silicon Valley, e infine di Land art. Analista dell’industria dei media, ricercatore e docente universitario con importanti esperienze nel mondo corporate, autore di libri di spessore come “Oltre il rumore – Perché non dobbiamo farci raccontare internet dai giornali e dalla TV” e “Unframing – Come difendersi da chi può stabilire cosa è rilevante per noi”, Antonio ha una profonda conoscenza del sistema dei media (digitali e analogici), uno dei fattori che più sta plasmando il nostro presente, e che di sicuro plasmerà il nostro futuro.
Tra gli speaker della tavola rotonda “Visioni per il futuro”, tenutasi il 29 ottobre sulla nostra pagina Facebook, Antonio ci racconta l’evoluzione del panorama mediatico in cui siamo immersi ogni giorno. In questa breve conversazione, ci dà qualche spunto a margine della tavola rotonda.
La comunicazione come performance
Antonio, tu ti occupi di media, e anche di social media. In che modo Facebook, Twitter, Instagram e così via hanno cambiato il modo in cui viviamo e ci informiamo?
Per le persone i cambiamenti hanno una doppia natura. Da un lato, dobbiamo considerare cosa è cambiato per le persone direttamente: per esempio il fatto che i nostri occhi si posano oggi sempre più spesso su luoghi nuovi, dove valgono regole diverse rispetto a prima. Dall’altro lato dobbiamo considerare che la reazione dell’industria dei media tradizionali ha influito sulla nostra percezione del nuovo, con la paradossale conseguenza che l’innovazione, oggi, è prevalentemente raccontata da chi la subisce, e non da chi la fa. Dobbiamo quindi barcamenarci tra la nostra percezione diretta del cambiamento, dove a volte scoviamo delle opportunità per migliorare la nostra vita, e la visione distopica presente nel grido di dolore di chi, dopo anni di dominio del nostro tempo libero, si sente “sostituito”, cioè i media tradizionali. L’esperienza diretta è quindi del tutto improvvisata, la nostra reazione non è né “educata”, né “strutturata”, proprio perché mancano i maestri.
I maestri, e linee di condotta…
Svanito il sogno velleitario di imporre una qualche “netiquette”, molto spesso le generazioni nate prima del 1990 applicano alle piattaforme social, istintivamente, i codici della cultura broadcast nella quale sono cresciute, favorendo le leve identitarie, il racconto del sé, e mostrando una sostanziale incapacità di ascolto. Le giovani generazioni, invece, usano i social per organizzare meglio le loro relazioni del mondo in carne ed ossa. Quando sono online perdono meno tempo di noi a contrapporsi in modo identitario, mentre la vera forma di confronto è di tipo performativo, come appare chiaro su Instagram e ancora di più su TikTok. Non mi spingo fino a formulare giudizi su quanto ciò sia un bene o meno. Dico solo che noi pre-1990, cresciuti per decenni a colpi di reality, e talk show dove trionfano varie forme di violenza verbale e concettuale, abbiamo molto meno da insegnare rispetto a ciò che pensiamo.
La fugacità dell’elemento visivo
I media, tradizionali e digitali, sono sempre più visivi. Perché?
I media digitali sono sempre più visivi perché è più facile presidiare l’attenzione con codici immediati e autosaturanti. L’immagine pretende di spiegare tutto, lascia poco tempo alla comprensione, alla riflessione e all’immaginazione (non è un caso che “immaginazione” sia una parola con la stessa radice). E, a differenza del testo, può essere rapidamente sostituita – quando già hai svolto l’interazione, quindi hai già liberato i tuoi preziosi dati – da un’altra immagine o da un altro video. Sulle piattaforme digitali, se si considera il modello economico che le sostiene, ciò è perfettamente comprensibile: se lo scopo è sfruttare il “tempo in piattaforma” per creare più interazioni possibile, è il modo più semplice, per quanto lo si possa moralmente condannare – cosa che in questa sede non ci interessa.
Questo i media digitali. E i media tradizionali?
Il fatto che gli altri media (non solo la televisione, ma persino i giornali, e non solo online) imitino lo stesso modello è più il frutto del sacro terrore di “non fare nulla”, e di farsi rubare l’attenzione, piuttosto che il risultato di una strategia ragionata.
Chi è stato secondo te un grande visionario del XX secolo?
Senz’altro quando il sociologo ed esperto di mezzi di comunicazione Marshall McLuhan prevedeva, nel 1969, che in futuro avremmo consumato i contenuti raccontando per telefono alla Xerox le nostre passioni e i nostri interessi, e la Xerox ci avrebbe spedito a casa dei libri fotocopiati personalizzati, ha raccontato qualcosa di molto simile alla internet di oggi, in un’epoca in cui internet non la immaginava nessuno. Eravamo troppo impegnati a immaginare mondi in cui spostarsi con macchine volanti, o relazioni tra uomini e robot con ambizioni emotive, per collegare tra loro i puntini, e capire che grazie alle tecnologie nascenti presto tutta la comunicazione si sarebbe svolta, finalmente, su una infrastruttura a due vie, “tra molti a molti”. Peccato che la stiamo sprecando, ma probabilmente siamo ancora in una sorta di medioevo digitale.
Il ritorno dell’arte contemporanea
Per te l’arte contemporanea alle volte è in grado di cambiare la nostra prospettiva. Perché, e puoi farci un esempio?
Già l’arte concettuale, negli anni ‘60, si era messa in concorrenza coi media nella capacità di influire sulla nostra percezione del mondo. Ma ai tempi era più difficile perché i media riuscivano a informare, a darci strumenti per comprendere quello che succedeva. Oggi invece i media sono ossessionati dal presidio dell’attenzione, che va incontro a un loro bisogno, non al nostro. Quindi in sostanza i media attrezzano una sorta di “rosticceria dei contenuti”, dove i cibi hanno tutti lo stesso sapore, perché a loro non interessa più farci ragionare. Si aprono straordinarie opportunità per l’arte contemporanea, quindi.
Cioè?
Se tutto è “rumore”, è molto più semplice, con un semplice segnale, aprire uno squarcio nelle nostre coscienze. Quando irrompe sulla scena una grande opera d’arte, è come se riuscisse a sfondare la vetrina della rosticceria. E rimaniamo, giustamente, fulminati. Oggi ci sono molte più notizie in un museo d’arte contemporanea che in un telegiornale, ma pure rispetto alla vostra timeline di Facebook, che molto spesso ricalca la sequenza del telegiornale del giorno. Gli artisti però, a loro volta, devono stare attenti a non farsi dettare l’agenda dai media, o peggio, cercare una provocazione gratuita per puri fini di visibilità mediatica. L’arte dovrebbe sempre essere laica rispetto ai rapporti di forza, e assecondare le regole dei media è la più mortificante delle sottomissioni.
Due domande sul futuro
Se dovessi dare un consiglio a un giovane creativo, a una giovane artista, cosa gli diresti?
Viaggiare, non farsi mai imprigionare dal “cosa funziona da noi”. Perché quasi sempre “cosa funziona da noi” è vecchio, e destinato a morire. Meglio vedere cosa funziona all’estero, e non vergognarsi di copiare. Tra l’altro copiare nel metodo è il modo migliore per trovare spazi nel merito, introducendo temi e argomenti originali. L’Italia è un paese drammaticamente indietro su tanti fronti dell’industria creativa. Da noi non esiste nemmeno il “fair use”, e cioè la possibilità di far circolare parti di contenuti protetti da diritto d’autore per fini educativi o culturali. Viviamo prigionieri di gabbie concettuali e regole economiche di matrice novecentesca. Questo ritardo è peraltro foriero di una grande opportunità: possiamo imparare dagli errori degli altri, di chi all’estero ha già potuto innovare e sbagliare. Possiamo fare come nel 1977, quando finalmente introducemmo la tv a colori, ma con lo standard tecnologicamente più avanzato, il PAL, mentre altri si erano già spaccati la testa con l’NTSC.
Come immagini il futuro, Antonio?
Come accennavo prima, mentre in molti si affannano a definire il presente come l’esito di una rivoluzione compiuta, la cosiddetta “rivoluzione digitale”, io credo che siamo davvero all’inizio, in una sorta di medioevo in cui i problemi che vediamo, e che spesso sono imputati alla rete (il populismo, l’ignoranza, la violenza verbale, la post-verità ecc.) in realtà non sono causati dalla rete, ma semplicemente rivelati da una tecnologia che prima non avevamo. Inoltre gran parte dei conflitti che internet fa emergere riguardano lo scontro tra chi resiste al cambiamento per difendere le posizioni acquisite in èra analogica e chi considera il cambiamento la premessa dell’affermazione dei propri diritti. Questa, ovviamente, è una opportunità: pensiamo alle minoranze tra le identità di genere, e alla loro conquistata centralità nel dibattito pubblico. O ai giovani privi di garanzie. O a temi che erano tabù fino a pochi anni fa, come l’eutanasia legale. La scelta non era, come qualcuno pensa, tra un mondo sereno e uno agitato. Eravamo agitati anche prima. Semmai, pur tra molte difficoltà, se vogliamo adesso possiamo ascoltare tutti. E saranno gli agitati a cambiare le cose.