Nicola Magrin è uno dei più apprezzati acquarellisti europei. Artista di precocissimo talento, è cantore – attraverso la poesia delle immagini – di montagne e cieli stellati, lupi e alberi, nevai e praterie erbose. Con il suo pennello ha realizzato le copertine di capolavori della letteratura del ‘900 come “I sommersi e i salvati” di Primo Levi e “Il colore viola” di Alice Walker, e di grandi romanzi contemporanei come “Le otto montagne” del suo amico fraterno Paolo Cognetti, “Il lupo e l’equilibrista” di Max Solinas, “Lettere contro la guerra” di Tiziano Terzani.
Nicola è anche autore di un libro: “Altri voli con le nuvole”, edito da Salani. Un’opera di rarefatta bellezza e vertiginosa meraviglia, dove la poesia dell’acquarello si intreccia con la magia delle parole, in un racconto che parla di natura, albe, amicizia, silenzio, libertà, vette, viaggi, luna, torrenti, vento, avventura, radici, e di tutto ciò che può rendere un’anima felice. Un artista di grande visione, talento e passione, che il 3 dicembre sarà protagonista del primo VAIA Vision della storia della nostra startup. In questo post abbiamo l’onore di presentarvelo.
Dividersi tra città e montagna
Parlaci di te Nicola. Tu sei un artista monzese.
Sì, esatto. Sono nato a Milano (dove ho anche fatto l’Accademia di Brera) nel 1978, ma sono cresciuto a Monza, e a Monza abito. Vivo in una casa molto vecchia, e molto bella a mio parere, e ho il mio atelier in un capannone industriale che affitto ormai da vent’anni. Ci sto veramente bene perché è uno spazio molto grande, e io adoro gli spazi ampi. E del resto faccio lavori anche molto grandi.
In inverno stai a Monza, in estate in montagna.
Esatto. A giugno, luglio, agosto, e magari anche a settembre per qualche settimana, mi trasferisco in alta Valmalenco, più precisamente a Chiareggio, che è proprio l’ultimo paese al confine con la Svizzera. È una parte della valle dove non ci sono impianti di risalita – una zona molto selvaggia, e trascorrere del tempo lì significa accettare di vivere una vita spartana. Ma questo non è un problema, perché io adoro la montagna. I miei genitori si sono conosciuti dove sto d’estate, e si sono sposati lassù. Forse è anche per questo che mi hanno trasmesso l’amore per la montagna, e in particolare per la Valmalenco.
Il primo atelier, e quella sensazione di Storia
Tu sei un artista molto conosciuto e amato, in Italia e all’estero. Hai uno stile inconfondibile, il che significa che hai una tua visione del mondo, una Weltanschauung come direbbero i tedeschi. Qual è stato il tuo percorso?
Penso di aver fatto un percorso abbastanza originale, un po’ come tutta la mia vita fino ad adesso, che ammetto essere fuori dagli schemi classici. Al liceo ho amato molto la letteratura greca e latina, così come quella inglese; grazie a un professore fantastico scoprii William Butler Yeats, per esempio. E devo dirti che nella mia vita l’amore per i libri ha sempre giocato un ruolo importante, e molto della mia esistenza ruota intorno alla pagina stampata, scritta o dipinta che sia. La casa dei miei genitori, del resto, era piena di libri, così come lo è oggi la mia. Dopo il liceo sono approdato all’Accademia di Brera, e lì mi fu presto chiaro che, “da grande”, io volevo vivere di pittura.
Al giorno d’oggi ci vuole coraggio per fare una scelta del genere. E resilienza nel tener duro.
Guarda, mi sono servite volontà e caparbietà, anche per non crollare di fronte alle tante porte sbattute in faccia. Io sapevo di avere un talento, ne ero consapevole, e sapevo che questo talento era diverso da altri talenti. Non si tratta di presunzione, ma di convinzione. Credevo così tanto nel mio talento che, qualsiasi cosa fosse successa, io sarei andato avanti. E così ho fatto. I risultati in effetti non sono tardati ad arrivare. A vent’anni ho avuto la copertina e un lungo articolo a firma di Luca Beatrice su Arte, una rivista importantissima. Ovviamente, come succede ahimè spesso in Italia, ci furono delle insinuazioni, domande su chi conoscessi per aver ottenuto un simile risultato, ma io non conoscevo proprio nessuno. Il fatto è che il direttore di Arte, Nuccio Madera (purtroppo mancato poco dopo), si era innamorato dei miei quadri e aveva deciso di scommettere su questo ventenne monzese che nessuno conosceva.
E dopo la copertina hai avuto il tuo primo atelier…
Sì, una stanza di tre metri per tre all’interno di un cantiere edile a Monza. Era una situazione a suo modo bizzarra, perché ero circondato da muratori e falegnami che mi vedevano dipingere… Avevo anche un gallerista, Jean Blanchaert: milanese, fantastico, amico di Philippe Daverio. Tra il 2008 e il 2009, poi, ho fatto un’esperienza a New York. Vivevo ad Harlem, e per me fu fantastico trascorrere tre mesi lì, nel periodo in cui Barack Obama vinse le elezioni e giurò. Per la prima volta nella storia un afroamericano diventava presidente degli Stati Uniti, sentii davvero la Storia con la S maiuscola. In quei giorni magnifici mi veniva in mente Tiziano Terzani quando parlava dei suoi vent’anni in Asia, dal Vietnam alla Cambogia, e diceva “in tanti momenti della mia vita ho vissuto la Storia”. Io ero in America, a New York, a modo mio, senza far nulla di particolare sia chiaro, però provavo la stessa sensazione. E lì capii una volta per tutte di essere sul cammino giusto: una sensazione che ho tuttora.
L’ispirazione: una placida piena
Tu sei un acquarellista in grado di regalarci opere profondamente evocative: alle volte struggenti come la tua copertina per “Se questo è un uomo” di Primo Levi (Einaudi), altre sognanti come “Passi silenziosi nel bosco” (Nuages) – dove lo spettatore ha quasi la sensazione di sentire il vento soffiare tra l’erba alta – in ogni caso sempre toccanti. Ecco, per te quanto conta la visione, nel tuo lavoro?
Tantissimo. La visione, peraltro, è quello che ti permette di non copiare dalle fotografie. Voglio dire: vivere l’esperienza con il proprio corpo, con il proprio cuore, e naturalmente con la vista e con gli altri sensi, è stupendo. Io poi ho una grande memoria visiva, quindi è come se avessi in me un database di tutto ciò che ho visto. Certo, con i numeri sono un disastro, però per fortuna ciò che vedo mi rimane dentro.
Vedere, e poi dipingere. Vado nel mio atelier, ed è lì che dipingo (soltanto lì), perché è come se fosse il mio antro, dove trovo il mio equilibrio perfetto, la mia calma. Perché per me il dipingere è come una sorta di meditazione, un atto di concentrazione. Mi siedo, preparo i colori, alle volte metto della musica classica, e poi mi lascio travolgere, è un fiume in piena di coscienza. E la cosa bella è che mentre dipingo sorrido, perché mi sto divertendo, perché mi piace ciò che faccio. In quei momenti in me c’è il bambino che per la prima volta dipinge qualcosa di bello.
Dalla visione al fiume in piena…
Esatto. Io lascio fluire questo fiume, non metto dighe, non pongo argini. È un fiume che va, e che non porta disastri, ma tranquillità e serenità. E tranquillità e serenità è ciò che sente la gente quando vede i miei acquarelli.
Il primo solo
I tuoi acquarelli impreziosiscono grandi libri, ma ora in libreria c’è anche un tuo libro: “Altri voli con le nuvole”, edito da Salani. Un libro fatto di immagini, di bellissimi acquarelli, ma anche di parole, di un testo di cui sei l’autore.
Esatto, è proprio il mio primo libro da autore. Sinora ho realizzato una settantina di copertine per diverse case editrici, principalmente Einaudi, poi il gruppo Gems, Neri Pozza, Add Editore, Big Sur… Sono molto felice di poter lavorare con case editrici e autori che amo. Per esempio per Neri Pozza, l’anno scorso, feci la copertina di questo libro dell’americano Joe Wilkins, “Nella terra dei lupi”; un romanzo bellissimo, che ha avuto enorme successo negli Stati Uniti. Poi ci sono stati dei libri dove i miei acquarelli hanno accompagnato il testo di un autore o di un’autrice. Il primo è stato un libro di Folco Terzani, “Il cane, il lupo e Dio”; dato che ci conosciamo da tempo e che apprezza molto il mio lavoro, Folco mi chiese se ero disposto a illustrare il testo. Il secondo è stato un libro del giornalista Federico Rampini, poi altri, sino ad arrivare a questo mio libro.
In “Altri voli con le nuvole” c’è una dedica. A chi?
La dedica è a Pietro, Riccardo e Margherita, che sono i miei nipoti, i figli di miei fratello. Ho voluto dedicarlo a loro perché ho questa presunzione, se vuoi: penso che la mia vita sia stupenda. Il fatto che mi sia inventato un lavoro – e come lo faccio io è un lavoro abbastanza unico –, che abbia trovato il mio linguaggio e il mio modo di vivere, ecco: di questo sono molto fiero e orgoglioso. Il mio lavoro è la mia vita, per me dipingere è come respirare. Non posso scindere il Nicola che dipinge dal Nicola che cucina o che va in giro per il mondo, è un tutt’uno. Dipingere è il mio lusso, perché ho deciso di volerlo fare, perché mi sono impegnato tanto, perché ho sì il talento, ma ho avuto anche e soprattutto la determinazione per andare avanti, nonostante le tante batoste e gli innumerevoli no.
Tutti quelli che hanno letto il tuo libro sono rimasti profondamente toccati da esso. È raro che un libro riesca a mettere d’accordo tutti, e il tuo ci riesce. Qual è il suo segreto? Qual è stata la genesi dell’opera?
Era da tempo che volevo fare un libro mio. Dopo aver “prestato” per anni i miei acquarelli alle parole di scrittrici e scrittori, a volte per rendere i loro lavori più poetici, altre volte semplicemente come accompagnamento, ho avvertito davvero il bisogno, e il sogno, di fare un libro mio. E ho pensato che il momento migliore per crearlo sarebbe stato un periodo di isolamento, per racchiudermi in me stesso senza troppe distrazioni dall’esterno. E quel periodo è stato il lockdown. Una premessa: io sono stato bene, non ho avuto lutti né situazioni drammatiche come purtroppo è capitato a tanti altri…
Però anche tu avrai patito il peso di dover passare tanto tempo a casa…
Per nulla. Trascorrere così tanto tempo in casa non mi faceva “sclerare”, anzi. Ho passato molte ore leggendo, cucinando, guardando dei film. Questo però non mi faceva passare la voglia di lavorare. E così ogni giorno prendevo la bicicletta e mi regalavo quattro, cinque ore per dipingere. Alla fine sono arrivato a dipingere più di duecento acquarelli, quindi ho fatto una cernita con la casa editrice, Salani (con cui ho lavorato divinamente). Mi sono confrontato con il mio agente, Marco Vigevani, e alla fine ho deciso di inserire un brevissimo testo, che ho scomposto seguendo l’andamento del libro e delle immagini, quasi come se fosse la colonna sonora dell’opera, un lungo haiku che si snoda tra le pagine. Ho cercato di arrivare all’essenza delle parole. Vedi, io non mi considero uno scrittore, infatti il testo è molto semplice, però come dicevi poco fa arriva, e le persone lo stanno capendo. Mi scrivono in tanti, sentono la leggerezza, la poesia, la musicalità che il libro cerca di trasmettere tra una pagina e l’altra. Questo è molto gratificante.